Dicono Di Noi

Romano Morando

Per Gianni Bandinelli l’immagine è un modo di essere, è il “termine” visivo attraverso il quale egli da forma alla sua eccitata emozionalità.

Egli appartiene a quel gruppo di artisti che hanno fatto della loro vita un’opera d’arte. Questi non rappresentano il loro modo di essere in quanto compiono certe determinate azioni ma è la loro stessa esistenza che assume forma e significato nell’atto creativo.

Il “gesto” che egli compie è puro dinamismo alla ricerca della sua “forma”. Ciò si evidenzia nella molteplicità dei “termini” e nel saper trovare il “mezzo” tecnico adeguato per risolvere figurativamente tutte le varie “situazioni” che stimolono la sua coscienza d’artista.

Quindi aldilà di ogni schematizzazione professionale, l’arte è per Gianni Bandinelli, un’occasione di verifica della sua dimensione esistenziale, nel “gesto” che si fa “forma”.

Vittorio Spampinato

La forza della creatività e il bisogno di bellezza: energie per la vita.

Riporto questa mia esperienza in Greve in Chianti il 28 ottobre 2020.

In un luogo baciato dal sole e da una rigogliosa e fitta raccolta di querce e castagni, arroccata su scisti di galestro e terra ricca di storia e tradizioni, fertile ed ospitale, la scoperta di un incontro in perfetto equilibrio tra l’arte e la natura. È la casa Museo di Gianni Bandinelli denominata “Fabbruzzo” a Greve in Chianti. Ho passeggiato, in una splendida giornata autunnale, dove i colori della vegetazione si mescolano perfettamente con la materia che l’arte celebra testimoniando la propria essenza con l’armonia di chi, attraverso una meditazione attiva, contempla il “Bello” e vi si immerge alla ricerca di quella fusione perfetta che genera l’incanto. Da lontano le Alpi Apuane si mescolano con i raggi di un sole penetrante tra i rami e le foglie che formano velo e protezione al luogo. La visuale è mozzafiato dai suoi seicento e più metri di altitudine sulla valle del Chianti, così come la dolcezza delle forme e dei colori delle opere poste con cura dagli autori e da Gianni Bandinelli, fondatore del luogo, per essere donate a quella terra che le accoglie nel suo ventre come una madre che le nutre di luce e aria e colori per esaltarne il fascino e raccontarne il messaggio. Parlare con Gianni Bandinelli è scavarne l’entusiasmo, l’impegno massiccio e costante che si trasforma in racconto fiabesco e avventuroso di chi dell’arte nutre da sempre una passione e un rispetto profondo. Nasce intorno al duemila questo fuoco ardente e si riscontra ora quella magica essenza mio. Avere uno spazio proprio per dispiegare le proprie idee sulla tela ha un valore inestimabile e aiuta la concentrazione e l’ispirazione. Nel mio rifugio sono nate le opere che non solo ritengo le più iportanti ma che mi hanno anche dato conforto nei momenti bui della mia vita. Le mie tecniche sono le tecniche tradizionali ma ciò che ritengo un valore aggiunto è la presenza di elementi del mio territorio, la Toscana. Infatti sono solito mescolare i colori acquistati presso i negozi di arte con le preziose terre fiorentine (in particolare qudell’energia che il luogo, trasformato dall’amore che l’uomo vi ha riversato con le sue immissioni, rigenera in una dimensione pranica per chi è pronto a raccoglierla. Niente è disarmonico, nulla è lasciato al caso, tutto trasmette prana essenziale e vitale: bellezza, segno, armonia, fatica e desiderio di tradurre gli istinti creativi in pura emozione, in un rapporto di equilibrio tra l’uomo e la natura. Da qui partire per visioni oniriche e voli fantastici è un attimo: travolti da un’ossigenazione piena e soffice e dai contenuti di una realtà reale e partecipata dall’arte, il nostro viaggio meditativo è intenso e profondo, all’unisono con l’inconscio e l’ambiente. Il suono delle ghiande che cadono a fiotti mosse dal vento, i ricci ricolmi di castagne che si offrono al nostro passaggio accolgono i passi, i silenzi, le parole, mentre il sole riempie di luce ed ombre i vuoti e i pieni delle forme. Si scorge un giocoliere, un Leonardo, un sole caduto e una luna narrante, un occhio curioso e misterioso che ci saluta fra i rami e un elfo che suona la sua melodia fatta di silenzio e pace. E poi un anfiteatro naturale, sceneggiato solo per il richiamo all’arte, due case splendide in sasso vivo e caldo che accoglie gli ospiti nell’agriturismo omonimo appena aperto e tanto altro, nelle oltre quaranta sculture di artisti più o meno noti che, fuse nella radura incontaminata, spontanea e antica, costituiscono l’ossatura di un tempio alla dolcezza naturale e ospitale che invita e regala poesia e energia. L’ironia toscana di Gianni Bandinelli poi, apprezzato scultore e pittore di gesto e maniera, è il collante di ogni presenza, l’autore dell’opera e il fautore di un bene prezioso e importante, il richiamo costante al gioco, a quel gioco della vita tanto caro a Johan Huizinga e che abbiamo abbandonato nei meandri di un’esistenza dispersiva e troppo lontana dai reali valori delle cose. E qui si medita: ad un’opera nuova, ad un progetto per gli altri o per se stessi, insieme, in un incontro casuale o voluto, così come incontro a volte casuale e a volte voluto sono l’arte e la natura fuse insieme per dare nuove armonie e potenze creative a chi ne trae ispirazione e ne coltiva il piacere. Questo il valore di una raccolta d’arte, il calore dell’accoglienza e l’amore per la bellezza del Creato e di chi, del creato, ne esalta gli elementi primordiali con un alto rispetto per la Vita e una sconfinata gioia per il Fare. A volte, e non ce ne rendiamo conto, per star bene è sufficiente guardarsi intorno.

 

Roberto Castellucci intervista Gianni

Ho amato l’arte fin da piccolo, ero sempre felice quando i miei genitori  compravano dei quadri ! Avrei voluto studiare presso un istituto d’arte ma, per vari motivi, ho seguito un indirizzo diverso. Comunque, fin dalla prima gioventù ho iniziato a frequentare corsi d’arte per mio puro piacere, trovando spazi disponibili alla realizzazione della mia fantasia. Successivamente ho avuto incontri con gli artisti della mia terra e ho iniziato a prendere lezioni di scultura nello studio di Marcello Guasti e a seguire anche una scuola di disegno. In seguito, nonostante il mio lavoro in banca mi prendesse tanto tempo nell’arco della giornata, sono riuscito ad aprire uno studio tutto ella rossa del Ferrone), che raccolgo e tratto al fine di dare più materia alle mie cromie. Spesso la profondità, la matericità e il chiaroscuro così ottenuto riesce a generare emozioni istintive nello spettatore. I chiaroscuri, poi, riflettono la visione della mia vita, della nostra vita, in perenne equilibrio tra gli opposti, tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra il bello e il brutto, tra il caldo e il freddo… come meteore nell’universo fra luce e non luce!

I due artisti che più mi hanno colpito nella storia dell’arte sono stati Burri e Fontana, che ammiro tantissimo non solo per le tecniche ma soprattutto per l’inventiva e per la cultura del loro tempo. Un altro artista che ammiro è Rotko, per la sua facilità di originare astratti molto efficaci. Entrare nel più prestigioso mercato dell’arte non è facile, soprattutto in tempi in cui la congiuntura economica sconsiglia acquisti ritenuti, non a ragione, superflui. Occorre altresì rilevare che il nostro tempo risente della mancanza di ideali, di ideologie, di movimenti e, più in generale, di cultura. 

Nel mio piccolo, poi, cerco di non seguire le mode del momento, spesso assecondate da alcuni galleristi per ravvivare le vendite ma che, nel lungo periodo, non costituiscono una mossa vincente.

Il mio modo di fare arte si rispecchia anche nel mio Bosco d’arte, un percorso collettivo di scultura a difesa della natura. Non è importante la singola opera ma il percorso d’arte che emoziona e grida il messaggio: proteggiamo la natura!    

Marco Hagge

DUE ACCENTI PER UN PASSO

 

Fino a qualche tempo fa, quando dal fondovalle della Greve si saliva a fare due passi nel bosco, non c’era dubbio: si andava a Sugàme. Con l’accento sulla seconda sillaba, secondo l’uso certificato e tramandato nel Chianti, da chi abita nel giro di qualche chilometro intorno al Passo (fra i quali il sottoscritto): Sugàme. Poi, insensibilmente, si è diffusa una variante parallela, abusiva ma tenace, negli anni in cui, dopo la moda della casa in Chianti, sono state scoperte le strade del territorio. I primi ad arrivare sono stati i crossisti, più o meno dagli anni Settanta, quando divisioni corazzate di amanti degli scossoni, del fango, del fondo stradale dissestato e del mal di schiena, si riversavano, le mattine dei dì di festa, su quello che rimaneva della antica viabilità vicinale, campestre e forestale, fino a dissestarla del tutto. Poi sono arrivati i ciclisti, grazie ai quali oggi la Provinciale16 Chianti-Valdarno è diventata un frequentatissimo anello cicloturistico della Città Metropolitana, che permette di uscire da Firenze con un comodo prologo di riscaldamento  sui tratti pianeggianti, per inerpicarsi poi fino ai 531 metri del Passo di Sugame, e rientrare comodamente, in discesa, verso la città, magari con il conforto dei numerosi punti di ristoro disponibili lungo il percorso.

In parallelo alla scoperta della strada, è stato scoperto il luogo, indicato da un cartello stradale, Sugame, con l’indicazione dell’altitudine, ma non dell’accento. Da qui, la nuova pronuncia, Sùgame, con l’accento anticipato sulla prima sillaba: evidentemente, ha tirato a indovinare non avendo mai sentito pronunciare il nome da chi abitava nei paraggi. Può darsi anche che la pronuncia tradizionale risoltasse poco elegante per i nuovi utenti del territorio, evocando per assonanza termini come”tegàme, “ciarpàme”, “letàme” e simili, poco congrui all’immagine di un Chianti diventato, da terra di lavoro, meta di viaggio per un pubblico in cerca di “antichi splendori”, “emozioni mozzafiato”, e simili articoli raccomandati nel repertorio delle agenzie turistiche. “Sùgame”, in effetti, oltre a non evocare nessun oggetto specifico, ha un suono quasi esotico: oltretutto, non richiamando altri termini noti, esercita il fascino di un marchio inventato da qualche creativo per un nuovo prodotto: veloce e sbarazzino, suggerisce il passaggio di chi sale e scende, pedalando o rombando, sui tornanti della strada che si percorre per arrivare al Passo.

 

Due accenti, due mondi, due tipi di frequentazione: quello, di lunghissima durata, che ha dato forma al paesaggio di questa porzione di Toscana; e poi, più molto più recente, quello del Chianti post-agricolo, rigorosamente bicolturale (vite e olivo), scoperto imprevedibilmente, e risvegliato dalla marginalità come una bella addormentata fra i boschi. Un mondo dove la bellezza è di casa da sempre, frutto di una colonizzazione eroica in una terra avara, perché nessuna risorsa ambientale doveva essere trascurata, nel nome di una economia ingegnosa e  severa; e che è effettivamente più agevole apprezzare guardandosi intorno, in posizione eretta, magari con l’ausilio di un binocolo o di un obiettivo fotografico, piuttosto che chinati, con gli occhi a terra per sarchiare, zappare, estirpare le erbacce o raccogliere i frutti del bosco.

 

In ogni caso, a prescindere dagli accenti, la Provinciale 16 Greve-Figline è indubbiamente una delle strade più belle d’Italia. Breve (neanche venti chilometri), ma intensa, come si usa dire delle esperienze più emozionanti. Proprio perché le emozioni non seguono le regole della geometria analitica, rispetto alla lunghezza della strada il Passo di Sugàme si trova in una posizione decisamente sbilanciata verso il Chianti, con notevoli conseguenze morfologiche e quindi scenografiche. In appena cinque chilometri si sale dal km. zero, all’incrocio con la Regionale 222 Firenze-Siena, fino ai 532 metri slm del Passo, superando un dislivello di ben trecento metri. In questo spazio risicato, che i colli si contendono, facendo ressa l’uno contro l’altro, sprofondano verso il basso con pendenze ripidissime, e riemergono subito dopo con affacci su coni visivi  sorprendenti, rivelando un paesaggio straordinariamente compatto eppure sempre diverso. Il primo colpo di scena, a poco più di un chilometro dalla partenza, dove uscendo da un interminabile tornante affiancato da una altrettanto interminabile muraglia, l’intera catena dell’Appennino Tosco-Emiliano, che all’estremo orizzonte abbraccia e si confonde con le Alpi Apuane. 

Una volta varcato il Passo, la prospettiva si ribalta, disegnando, come su uno schermo cinematografico, il profilo del Pratomagno, antemurale del Casentino, che si distende verso Arezzo e la Val di Chiana. Nel mezzo, il colle di Sugame, appoggiato ai monti del Chianti, che in questo teatro paesaggistico svolgono la doppia funzione di panoptikon o, se si preferisce, di palchetto panoramico a 360 gradi, e, contemporaneamente di confine microclimatico, visto che segna una barriera invisibile, e magicamente impenetrabile, alle nebbie che, nei mesi più freddi, stazionano sulla Valle dell’Arno. Passeggiando a mezz’aria, lungo il crinale, si intercetta il sentiero Zero del CAI, che collega Firenze con Siena, senza mai toccare località abitate. A un certo punto, voltandosi verso Nord, emerge, dietro l’ultima altura, una specie di fiammifero bianco, e accanto, al fiammifero, una semisfera rossa: sono rispettivamente, il Campanile di Giotto e la Cupola di Santa Maria del Fiore. Un cono visivo sorprendente: in effetti, passeggiare da queste parti significa andare in ricognizione, nel senso che, guardandosi intorno, si riconoscono presenze familiari inattese, reminiscenze scolastiche che si fanno colli, vette, paesi, strade. Una carta geografica stratificata nei secoli, un atlante della memoria. Ma quel triangolo laggiù è davvero il Cimone, il punto panoramico più ampio di tutto l’Appennino? E dietro quel crinale c’è l’Abbazia di Vallombrosa? E quel tracciato sotto la Croce del Pratomagno è la Setteponti, la direttissima Arezzo-Fiesole degli Etruschi, utilizzata poi da Annibale con tanto di elefanti? Un atlante affollato, dove, come a una festa di compleanno, ci si stupisce di ritrovare insieme amici e conoscenti a cui non si pensava più. Insomma, un luogo speciale, fatto per frequentatori curiosi, e magari anche un po’ “veggenti”, che ne sanno riconoscere la forza e le peculiarità. Come dimostra la storia di cui stiamo parlando, da queste parti ogni passeggiata può suggerire qualcosa di diverso: dipende dai passeggiatori. Che possono decidere ad esempio di trasformarsi in frequentatori stanziali, riportando a nuova vita le case una volta coloniche circondate dal bosco. Già, il bosco. Fabbrica di ossigeno, quinta multicolore che varia nel tempo, deposito di frescura: ma non solo. Certamente, una risorsa non facile da gestire: va compresa, rispettata, curata, ripulita, tenuta in sicurezza, in coabitazione con i numerosi utenti che lo frequentano: dagli escursionisti ai cacciatori di funghi, dai cacciatori alla selvaggina (ungulati soprattutto) sempre più ingombrante. Eppure, saranno le suggestioni della memoria (il bosco come il mondo/altro, casa delle fate e/o delle streghe, luogo di solitudine dove però si può ritrovare se stessi); sarà la (cattiva) coscienza della nostra era globalizzata e autodistruttiva; sarà il fascino della sfida, della concretezza nel mondo sempre più evanescente e incomunicabile della digitalizzazione e dei social: fatto sta che qui a Sugame il bosco ha ritrovato un ruolo da interlocutore e da protagonista, all’altezza dei tempi: quello di spazio culturale, e di galleria d’arte.

 

Per chi questa metamorfosi ha avuto la ventura di seguirla, grazie alla frequentazione di chi l’ha messa in atto, l’impressione è stata quella di un impresa ardua e impegnativa, ma, in un certo senso, assolutamente logica: una volta avviata, la lista delle cose da fare, e la direzione da prendere, si sono imposte da sé. Riportato alla dignità di paesaggio da quello di terra di nessuno (e, come vedremo, non solo per modo di dire), il bosco, ha ritrovato il suo riscatto, un ruolo da protagonista aggiornato ai tempi, e si è rivelato anche un collaboratore discreto, suggeritore di possibilità, indirizzi, occasioni. Fra queste, la più clamorosa si è manifestata durante i primi lavori di ripristino, quando il bosco si è rivelato non solo deposito metaforico di memorie e di suggestioni, ma metafora perfetta della parabola dell’abbandono e del disprezzo di una società senza rispetto per l’identità dei luoghi: offrendo, come vedremo, una delle opere che sarebbero state incluse nel percorso espositivo.

Il paesaggio, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è una cosa seria, anzi serissima: non  una quinta che si può spostare a piacimento come fondale per un selfie, ma un organismo delicato, in perenne trasformazione, che vive e non dimentica niente, nel bene e (oggi più spesso) nel male. Se nelle immensità ad alta quota il carattere più importante per un paesaggio è l’integrità ambientale, alla quale la pressione antropica può provocare sfaceli (vedi la trasformazione dell’Himalaya in discarica grazie alla voga delle ascensioni verso gli Ottomila), nella vecchia Europa – e tanto più nella vecchissima Italia – la prospettiva si ribalta. Da noi paesaggi integralmente naturali non esistono, come ci racconta la storia di Oetzi, riemerso dopo una ibernazione di migliaia di anni sulle vette di Similaun. Figuriamoci nel cuore d’Italia, nella antichissima e plurifrequentata Toscana: il paesaggio è una stratificazione di memorie, di presenze, di frequentazioni, di interventi che hanno lasciato il segno. Per quanto riguarda Sugame, il passato è riemerso in vari modi. Con i ciglioni una volta coltivati, ma anche con un ordigno inesploso, lanciato dall’artiglieria britannica contro la Wehrmacht in fuga nell’estate del 1944 (si trovava, per la cronaca, poco più in alto, a Monte Domini, più  meno nel punto in cui, voltandosi verso Firenze, si scoprono il fiammifero di Giotto e la semisfera di Brunelleschi). Ma può riemergere anche sotto forma di una carcassa di automobile (una Simca 1000 per l’esattezza), che l’ignoto proprietario, dopo avere abraso ogni matricola di riconoscimento, ha precipitato in un vallone del bosco: ridipinta di giallo e sistemata in posizione strategica, con tutti i permessi del caso (in Italia si può inquinare impunemente, ma per chi ripulisce la burocrazia è inflessibile), il “rifiuto speciale” è entrato a pieno titolo nel catalogo delle opere esposte (in questo caso senza firma, per evidenti motivi penali e civili).

 

L’idea di non limitarsi alla ricostruzione dei fabbricati, restituiti peraltro con precisione filologica negli spazi e nei materiali, ma di allargare il recupero al bosco, si può considerare in fondo il suggerimento di un ambiente che “parla”, come se avesse intuito di avere a che fare con nuovi vicini di casa dotati della sensibilità di capire il linguaggio di un ambiente che è una sintesi inestricabile di natura e storia, geografia e cultura. E’ questa sensibilità che ha trasformato  i nuovi inquilini da residenti in custodi, committenti e curatori  di una galleria d’arte tutta da inventare, ma con l’accortezza di individuare, come punto di riferimento per questa impresa decisamente  – e fortunatamente – visionaria, un artista di calibro internazionale e insieme profondamente toscano – come Marcello Guasti. E’ sua l’opera che, dal punto più alto del prato, domina il panorama, segnala il punto di partenza e garantisce la qualità dell’operazione.

Quanto alla scelta delle opere, non poteva che essere radicata nel luogo nel quale sarebbero state esposte. Opere in linea con la filosofia del “chilometro zero”, non tanto dal punto di vista fisico, ma mentale: non oggetti “trasportati”, ma nati in funzione del contesto in cui avrebbero vissuto. Personalmente, mi attribuisco la qualifica di visitatore “stagionale”: nel senso che al cambio delle stagioni ritorno abitualmente a fare una visita al Bosco d’Arte di Sugame, per ritrovare spazi, alberi e ospiti noti, vedere le new entries, i tratti di bosco aggiunti al percorso di visita, e quindi le trasformazioni del paesaggio: a volte, basta tagliare un ramo secco, e spunta, sul fianco di un colle lontano, una pieve dell’anno Mille; basta liberare un ciglione dai rovi, e spunta un muro a secco che riprende ufficialmente il suo ruolo. 

Guida insostituibile, il padrone di casa, che di ogni scelta racconta la storia, l’autore, illustrando la scena e il retroscena. Una guida molto sui generis, attuale e preventiva: perché, più che gli allestimenti realizzati, racconta,come se già ci fossero, quelli che esistono  – al momento – solo nella sua fantasia. Forse non a caso, Gianni (che l’arte la pratica e la realizza in prima persona) abita al Ferrone, nella terra della Terra, cioè dell’argilla che le fornaci trasformano in oggetti d’uso e oggetti d’arte. Il luogo dove ancora oggi l’Opera di Santa Maria del Fiore commissiona le tegole che, dopo alcuni decenni di esposizione all’aperto, andranno via via a sostituire quelle danneggiate sul capolavoro di Filippo Brunelleschi: perché anche grazie a questo accorgimento la semisfera rossa che spunta accanto al fiammifero bianco di Giotto lungo il sentiero che delimita il bosco rimane sempre uguale a se stessa, insieme punto di riferimento, sfida e tutela di un luogo speciale: dove sembra che, in tanti secoli, sia cambiato solo il modo di accentarne il nome.